Tradizioni popolari dei Nebrodi

Il Parco dei Nebrodi non è solo il cuore ambientale di questo territorio, ma anche il luogo dove è maggiormente possibile scorgere i segni culturali lasciati dall’uomo. Il territorio dei Monti Nebrodi è da sempre “vissuto” e “utilizzato” dalle popolazioni locali che da esso hanno tratto sostentamento e sviluppo. L’economia dei Nebrodi è prevalentemente incentrata sull’agricoltura e l’allevamento, ma sono presenti anche altre attività produttive come l’artigianato, le utilizzazioni forestali e la pesca.
In questa sezione ci occuperemo solo di alcuni aspetti di queste molteplici attività.

L'estrazione del sughero

Il sughero è un tessuto vegetale formato da cellule morte e vuote, presente nei fusti e nelle radici di alcune piante legnose nelle quali ha una funzione protettiva. Particolarmente pregiato commercialmente è quello della quercia da sughero (Quercus suber L.), un albero sempreverde dalla chioma globosa, con foglie piccole e coriacee con bordi accartocciati. Può raggiungere un’altezza di venti metri, un diametro di più di un metro e può vivere fino a trecento anni.
La quercia da sughero ha radici molto profonde e ciò le permette di adattarsi alla siccità; la spessa corteccia di sughero riesce a proteggere la pianta anche dal fuoco. Predilige climi temperati e piovosi e un’altitudine non superiore ai 900 metri e ha trovato il suo habitat ideale nei paesi bagnati dal bacino occidentale del Mediterraneo. Sui Nebrodi sono presenti numerosi boschi di quercia da sughero, particolarmente concentrati nei dintorni di Caronia. L’estrazione del sughero ha costituito un’importante attività economica soprattutto nella seconda metà del secolo scorso. La produzione è attualmente di 25-30.000 quintali l’anno e i metodi per la decorticazione rimangono tutt’oggi quelli tradizionali.

L’estrazione avviene solo nel periodo che va dai primi di Maggio a fine Agosto, quando il sughero si stacca più facilmente senza causare danni alla pianta e limitatamente ai fusti e ai rami di certe dimensioni. In passato il prelievo della corteccia matura avveniva una volta ogni sei anni, oggi, secondo le normative vigenti, dopo un periodo di almeno dieci anni. Gli operai specializzati nella decortica sono gli estrattori o scorzini (scurciddari in dialetto) il cui attrezzo da lavoro è un’accetta affilatissima che usano per effettuare i tagli: questa è la fase più delicata del lavoro in quanto, pur dovendo imporre parecchia forza all’accetta per tagliare il sughero, bisogna al contempo evitare assolutamente di incidere il fellogeno sottostante, il cui danneggiamento porterebbe alla morte della pianta. Il manico dell’accetta, che ha l’estremità sagomata a cuneo, viene infilato tra il sughero e la pianta a partire dai tagli, e, usato come leva, permette il distacco delle diverse porzioni di sughero, cosi come tracciate dall’accetta.
Queste porzioni, chiamate plance, vengono gettate a terra e raccolte in fasci ben legati con una corda; altri operai sono incaricati di raccoglierli, quasi sempre a spalla e in passato anche a dorso di mulo. Oggi, dove è possibile accedere con mezzi di trasporto, vengono caricati su trattori e poi sui camion per raggiungere i luoghi di raccolta o le fabbriche di lavorazione.

Il grano

la coltivazione in Sicilia (oggi molto limitata) è prevalentemente diffusa, per predisposizione dei suoli e per il clima favorevole, nella zona centro-meridionale dell’isola. Nel territorio dei Nebrodi erano presenti, fino all’immediato dopoguerra, delle coltivazioni nelle aree più scoscese, che sottraevano territorio al pascolo nella fascia collinare e montana. La produzione era esclusivamente per necessità d’uso locali. La maturazione del grano e la conseguente mietitura avvenivano verso la metà di giugno. In passato questo compito era eseguito a mano ed ogni mietitore aveva la sua falce con la quale tranciava le spighe, creando dei fasci che venivano lasciati in terra, per essere in seguito raccolti in covoni formati da 12 – 16 fasci. Questi, trascorsa una settimana per l’essiccazione, erano trasportati nell’aia dove si procedeva alla battitura. Le spighe venivano frantumate da un paio di buoi o da un singolo animale (mulo, cavallo, ecc.) che trascinava una macina. In seguito si formavano dei mucchi e si procedeva alla separazione della paglia da frumento lanciando in aria il prodotto battuto usando il forcone e la pala in modo tale che il vento allontanasse la paglia mentre i semi ricadevano in terra.
Il lavoro non era ancora finito: si procedeva infatti con un setaccio a maglie larghe per eliminare gli ultimi residui di paglia e poi con un setaccio a maglie strette per eliminare impurità ed eventuali pietruzze. Il grano era finalmente trebbiato, riposto in sacchi e conservato in un magazzino in attesa di essere portato al mulino. La molitura avveniva entro 4-5 mesi dal raccolto; il grano veniva pesato per determinare la quantità di farina ed anche il pagamento. La capacità di un mulino era di circa 4 quintali al giorno; da un quintale di grano macinato si potevano ottenere 90 chili di farina (2% disperso; 8% di crusca da separare).

La vite

La Sicilia, per condizioni climatiche, temperatura mite, terre collinose, leggera brezza di mare e sole acceso è da sempre un territorio atto alla produzione di uva e vino. Le prime testimonianze di quest’antica attività risalgono, infatti, all’età greca. Il territorio nebroideo offriva, fino al XIX secolo, una ricca coltivazione di vigne e un’apprezzata produzione di vino. Oggi appena il 2% del territorio è coltivato a vigna, per esigenze prevalentemente familiari. La vendemmia è eseguita, a maturazione dell’uva, solitamente tra la metà di settembre e ottobre. I vendemmiatori iniziano il loro lavoro al mattino presto, muniti di coltelli per staccare i grappoli e riporli in appositi contenitori, che vengono successivamente portati al palmento e svuotati nella vasca principale dove avviene la spremitura, un tempo effettuata a piedi scalzi. Il mosto è lasciato fermentare 24-36 ore per essere poi spremuto tramite torchiatura, separato definitivamente dalle vinacce e posto a fermentare nelle botti. Il vino nuovo si spilla di solito a S. Martino.

L'ulivo

nel territorio della siciliano è una delle piante arboree più rappresentative della fascia altimetrica più bassa, fino a 500-600 m sul livello del mare. Il paesaggio agrario è caratterizzato da un’olivicoltura di tipo tradizionale e secolare, con piante che hanno più di 100 anni. Essa rappresenta una ricchezza per il territorio, per le molteplici funzioni cui adempie: caratterizza l’ambiente, esplica un’azione di protezione del paesaggio e soprattutto sostiene il reddito delle numerose e piccole aziende agricole. Nel territorio nebroideo gli uliveti e i trappeti sono collocati in buona parte della costa e della collina. Nelle zone meno acclivi gli alberi sono stati piantati a distanze regolari in modo tale da poter curare facilmente il terreno e la raccolta; nelle zone più impervie è stato realizzato un ciglionamento con pietre a secco o con un terrazzamento continuo.
La raccolta delle olive avviene tra ottobre e novembre, procedendo in maniera diretta sui rami più accessibili e facendo cadere quelle più in alto, tramite l’abbacchiatura, dentro una rete adeguatamente predisposta sotto le piante. Quest’operazione era effettuata in passato da operai esperti tramite lunghi bastoni in nocciolo o salice. I frutti venivano infine deposti dentro sacchi e trasportati al frantoio più vicino. Una volta là le olive venivano pesate e disposte sul piano in pietra circolare della macina e schiacciate dalle mole rotanti; il pestato era rimosso con delle pale. La pasta ottenuta era disposta all’interno di contenitori, realizzati con fibre vegetali, adatti per essere impilati nel torchio a vite, ove avveniva la spremitura. Il liquido che fuoriusciva veniva convogliato nella tina, in cui l’olio si separava dall’acqua per essere in fine depositato in contenitori di terracotta o metallo.

La produzione del carbone sui Nebrodi

La presenza di estese formazioni boschive sui monti dei Nebrodi ha favorito per secoli il prelievo di legname per la carbonificazione. Questa attività costituiva una fonte di lavoro per numerose famiglie dl comprensorio; particolarmente attivi erano i carbonai di Caronia, S.Fratello e Cesarò, grazie ai quali ogni anno partivano alla volta dei principali porti tirrenici fra le 800 e le 900 grandi navi. Fra le qualità di legno quelle preferite dai carbonai erano: quercia, carpino, olmo, faggio e frassino. Il periodo migliore per la carbonificazione era tra Luglio e Ottobre. Il processo di carbonificazione era suddiviso in 4 fasi.
Prima Fase
Il carbonaio preparava l’area destinata alla carbonificazione spianando il piano prescelto. Individuato il centro , il carbonaio misurava con dei passi l’aia ed iniziava ad accatastare la legna, avendo cura di mettere i tronchi più grandi al centro e quelli più piccoli ai bordi a mo di ruota.


Seconda Fase
Il carbonaio continuava ad accatastare le legna disponendo nella parte interna quella mal cotta in un precedente processo, comunque utile per favorire l’accensione della carbonaia, avendo cura di creare nella parte esterna un canale per l’accensione. Un bravo carbonaio riusciva ad accostare vari diametri di legno in modo tale da lasciare meno spazio possibile, così favorire la combustione.

Terza Fase
Finito di accatastare la legna, il carbonaio ricopriva il tutto con foglie, felci e terra. In tal modo si creava uno strato in grado di seguire i movimenti della carbonaia e di favorirne la circolazione dell’aria. Questa fase era molto delicata, a causa del rischio di crolli dovuto alla riduzione di volume. Infine, sfruttando il canale d’accensione si dava fuoco alla carbonaia. Era opportuno fare queste operazioni al mattino presto, in modo da sfruttare al meglio le ore di luce. In seguito veniva rimossa la terra sulla sommità e introdotta altra legna all’interno.


Quarta Fase
La cottura si protraeva per 7-8 giorni, alla fine dei quali si procedeva alla raffreddatura e la scarbonatura, che aveva inizio togliendo lo strato superficiale di terra posto sopra la carbonaia. Spesso questa operazione veniva fatta di notte, in modo da individuare e soffocare con l’acqua il carbone ancora ardente. Nella scarbonatura si aveva cura di mettere da parte il carbone mal cotto e di suddividere e insaccare quello destinato alla commercializzazione.